“If I could go back, what would I say?”
(Jin, Background)
Se potessimo tornare indietro nel tempo cosa diremmo, cosa avremmo potuto dire di diverso che avrebbe cambiato il finale di una storia, dato un altro senso alla nostra vita? Cosa avremmo potuto dire a quel ragazzo che ci piaceva, a quella ragazza che era un’amica o, più semplicemente, anche a noi stessi? Quante volte vi è capitato di immaginare una macchina che vi permetta di viaggiare tra le nuvole del tempo, riportandovi indietro per parlare con voi stessi ed impedirvi di fare qualcosa o farla diversamente o, ancora, avere l’ultima opportunità per abbracciare quella persona che non c’è più?
Ma, ad oggi, non esiste una macchina del tempo; tutte le parole o gesti che vorremmo dire e fare tornano indietro come un eco nella nostra mente, nei giorni e nelle notti solitarie.
Ed è proprio così che si intitola il secondo mini album da solista di Jin: ECHO.
Quando è uscita la notizia del nuovo lavoro del WWH, mi è saltato subito in mente il richiamo al mito di Narciso e la ninfa Eco, innamorata respinta dal giovane dalle fattezze divine che non aveva mai visto il proprio volto. Nella versione classica, il ragazzo dopo aver respinto ogni tentativo di approccio sentimentale, tra cui quello della stessa Eco, finirà per innamorarsi del proprio riflesso in uno specchio d’acqua, in un bosco, morendo dietro a quell’immagine, con l’eco della propria voce tra gli alberi a tormentarlo.
Ironicamente, quando è uscito il primo lavoro da solista di Jin, Happy, il 15 novembre 2024, avevo commentato facendo il paragone con Harry Potter e lo Specchio delle Brame, sperando che Jin riuscisse a vedere il suo riflesso esattamente com’è, perché merita di esser felice, soddisfatto del lavoro che ha realizzato e di riuscire finalmente a guarire dalla sindrome dell’impostore, dalla paura di non essere all’altezza -vocalmente parlando- degli altri membri.
A sei mesi esatti di distanza, il 16 maggio 2025, è uscito il secondo album e la notizia di un tour mondiale che inizierà il 28 giugno allo stadio Goyang in Corea del Sud e lo porterà dall’Asia all’America per concludere in Europa.
All’interno di Echo, composto da 7 tracce, è possibile sentire in ognuna di esse come un eco, un richiamo lontano.
Ma procediamo per gradi. Innanzitutto, è un album che mi ha sorpresa perché non è di facile ascolto, evidenzia la complessità vocale di Jin (la silver voice dei BTS) e la sua voglia di sperimentare. Non è un lavoro perfetto, è stato un azzardo, quasi una scommessa ma ha saputo cimentarsi e destreggiarsi attraverso i vari sottogeneri del pop rock, dal brit rock all’alternative rock, al country, alla ballad pop e il jpop in un mix di inglese e coreano.
Ad aiutarlo in questa sfida, troviamo nomi storici come pdogg, ARCΛDES, Ghstloop, ma anche nuovi come Nathan Fertig e Wyatt Sanders, ritroviamo chi ha già collaborato più volte con i BTS (come Max Graham, Adora) o semplicemente che hanno partecipato alla produzione di alcune tracce di Happy (tra i tanti Lee Eun Hwa, Matt Attard). Ho scelto volontariamente di non elencarli uno per uno, per non rischiare l’effetto lista della spesa ma sono tutti nomi importanti che hanno aiutato l’artista anche nel processo produttivo. Jin stesso ha infatti partecipato alla stesura di ben quattro delle tracce presenti.
La main track, Don’t Say You Love Me, accompagnata dal suo MV girato a Singapore, ha anticipato l’uscita dell’album e introdotto l’ascoltatore al tema principale di Echo che attraverso le singole tracce lo rende partecipe di una storia d’amore altalenante.
Avete presente quando due persone vogliono lasciarsi ma, per l’ennesima volta, c’è sempre qualcosa che frena uno dei due?
Parole che suonano come ricatti emotivi, Don’t tell me that you’re gonna miss me (…) don’t say that you love me ‘cause it hurts the most (non dirmi che ti mancherò (…) non dirmi che mi ami perché è ciò che fa male di più), perché l’amore c’è ancora ma bisogna capire quanto si è ancora disposti a sopportare e andare avanti in una relazione che non ci fa più stare bene, I got this pain stuck inside my chest (ho un dolore nel petto).
Un rapporto nel quale a volte si idealizza l’altra persona, mettendola su un piedistallo, sentendoci niente senza il suo amore (Nothing Without Your Love), perché l’altra parte rappresenta la ragione della propria esistenza, ciò che ci rende completi, la luce alla fine del tunnel (you’re likе the sunlight at the end of a tunnel) nella notte senza fine.
Sono quelle relazioni che sono come delle partite, dove ti senti un perdente a volte (Loser ft. Yena, cantante e attrice sudcoreana) nei battibecchi perché lasci correre pur di non litigare (I’ll let it slide just this once (…) let’s not do things we’ll regret).Questo singolo non mi ha colpita al primo ascolto, stranamente ora è diventato uno dei pezzi che mi piace di più dell’intero album per il suo ritmo incalzante e la voce di Jin nel ritornello che quasi ricorda la maestosa Aretha Franklyn in Think.
Da qui si passa a Rope it che sorprende fin dalla prima nota e il nitrito di un cavallo che apre e chiude il singolo, realizzato dall’artista stesso. Qui, Jin si è cimentato nello stile country rock, una vera sfida nella sfida perché l’intero testo si basa sul coraggio di ingannare sé stessi per affrontare la vita (Throw it with all your might, lanciati/lanciati con tutto te stesso), per affrontare e avere il coraggio anche di lasciarsi (Knowing when to give up is a basic of living making a choice, is a feeling in the heart, sapere quando mollare è la base della vita, è fare una scelta, un sentimento nel cuore).
Anche se però poi ci si ritrova da soli tra le nuvole (With the Clouds), senza sapere dove andare (standing alone at the edge of solitude, to me, who doesn’t know where to go), con la paura che qualsiasi cosa tocchiamo, qualsiasi attimo di felicità, possa sparire, ci si sente come un bambino spaventato (will you disappear if I touch you clumsily? I’m a frightened child).
Piano piano si riprende il contatto con la realtà, chiedendoci se avessimo la possibilità di tornare indietro, cosa avremmo potuto dire (Background)? Ma anche se proviamo a chiamare quella persona, torna solo l’eco che riapre la ferita (even if I call you, It echoes back and hurts me again) e possiamo pure continuare a convincerci che sia amore (I try to convince myself it’s love) ma il noi di oggi (To Me, Today) è diverso, ha imparato a vivere nel presente e non più nel passato, né nelle paure del futuro (come on, shake off your worries, live in the present), a spiegare le proprie ali e volare dove batte il proprio cuore (Today’s me spread my wings, now I fly to where my heart beats).
Mi ripeto, non è un album perfetto e ci sono tracce che ho amato più di altre ma è stato un viaggio interessante da compiere al fianco di Jin e sono convinta che, al concerto, ci sarà da divertirsi ma soprattutto da rimanere incantanti nel sentire dal vivo la voce del WWH capace di cambiare registro vocale in pochi istanti.
E voi avete già recuperato l’album? Qual è la vostra opinione e … siete riusciti a prendere il biglietto per una delle date in Europa? Fatemelo sapere qui e nei commenti su IG!
Vi lascio con la main track eseguita dal vivo.
I purple you!
Lor
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